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un andito buio, egli vide un numero, il numero della
casa ove
abitava Maria Obinu. Entrò, salì all’ultimo
piano e suonò.
Una donna alta e pallida, vestita di nero, aprì: egli si
turbò, sembrandogli di aver veduto altra volta i grandi
occhi verdastri di lei.
–
La signora Obinu?
–
Sono io,
–
rispose la donna con voce grave.
–
No,
–
egli pensò,
–
non è
lei
; non è la sua voce.
Entrò. La Obinu gli fece attraversare un piccolo ve-
stibolo buio e lo introdusse in un salottino grigio e tri-
ste; egli si guardò attorno, vide una testa di cervo e una
pelle di muflone attaccate al muro, e immediatamente
sentì i suoi dubbi rinascere.
–
Vorrei una camera; io sono sardo, studente,
–
disse,
esaminando la donna da capo a piedi.
Ella era pallida e scarna, col collo lungo, il naso affi-
lato quasi trasparente; ma i folti capelli neri, pettinati
ancora alla sarda, cioè a trecce strette appuntate forte-
mente sulla nuca, le davano un’aria graziosa
.
–
Lei è sardo? Ho piacere...
–
rispose disinvolta.
–
Adesso non ho camere disponibili, ma se lei può pa-
zientare una quindicina di giorni, ho una signorina in-
glese che deve partire...
Egli chiese ed ottenne di veder la camera; il letto
stava al centro, fra due cataste di libri vecchi e d’oggetti
antichi; entro una vasca di gomma, ancora piena d’ac-
qua insaponata, olezzava un fascio di gaggie; dalla fi-
nestra si scorgeva un giardinetto melanconico. Sul ta-
volino Anania vide, fra gli altri, un volumetto che egli