121
C
ome si evince dal nome, si tratta di un lungo
flauto a becco e di un tamburo cilindrico bipelle
di piccole dimensioni, suonati da un unico esecutore.
Poiché tale pratica ha determinato una specifica
evoluzione dei due oggetti in modo da renderne
possibile l’utilizzo simultaneo, si considera la coppia
piffero-tamburino come un unico strumento.
Nell’organografia tradizionale la coppia viene descritta
tra gli strumenti aerofoni in quanto si attribuisce al
flauto un ruolo principale. Lo strumento è ormai
del tutto scomparso in Sardegna ma nei secoli passati
aveva un ruolo importante nell’accompagnamento
della danza e in alcuni riti paraliturgici. Lo si
deduce dalle numerose attestazioni iconografiche
a partire dall’angelo musicante nella tavola dipinta
dal Maestro di Castelsardo, conservata attualmente
nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari, o dal
bassorilievo cinquecentesco della chiesa di S. Bachisio
di Bolotana, fino alle stampe e ai dipinti del secolo
scorso. Si può dire altresì che lo strumento avesse
in passato un’importanza non inferiore a quella delle
launeddas
, come testimoniano i resoconti di viaggiatori
sette-ottocenteschi tra cui l’abate Fuos e il
La Marmora o musicisti quali l’Oneto. A differenza
di quelle, come rileva Giulio Fara, che nel 1917 gli
dedicò un esauriente saggio, non è però un prodotto
autoctono dell’Isola, essendo stato importato
dai dominatori iberici, e rivela una sorprendente
somiglianza con gli analoghi strumenti in uso nell’isola
di Maiorca. Le ultime notizie del suo impiego
risalgono agli anni Cinquanta di questo secolo.
Il flauto aveva un canneggio stretto e lungo che
consentiva la realizzazione di numerosi suoni armonici,
per cui con appena tre fori si potevano avere, secondo
il Fara, fino a 17 suoni differenti (anche se nella pratica
corrente se ne ottenevano appena una dozzina).
Con la mano sinistra si reggeva il flauto e
contemporaneamente si realizzava la melodia
chiudendo con il pollice il foro posteriore e con l’indice
e il medio quelli anteriori, mentre la mano destra
percuoteva con un piccolo mazzuolo un tamburino
appeso all’avambraccio sinistro. Giulio Fara, nel citato
articolo, descriveva ben tre strumenti di San Vero Milis
e proprio qui si è trovato
il più antico, di proprietà
degli eredi di Giuseppe
Orro. Il tamburo,
conservato in ottime
condizioni, a detta dei
proprietari dovrebbe
avere un’età
ultracentenaria, mentre
appare verosimile fissare
la data della sua
costruzione agli ultimi
decenni del secolo scorso.
B
IBLIOGRAFIA
M
IMAUT
1825:
TAV
.
F
.
T
.;
A
NGIUS
1833-56:IX 165, XII 263,
X VIII
BIS
541;
L
A
M
ARMORA
1839: II 259;
O
N ETO
1841;
F
UOS
1899: 153;
F
ARA
1916-17:151-174;
F
ARA
1923a:17;
F
ARA
1940:56-67;
G
ABRIEL
1954;
A
LZ IATO R
1957: 148;
L
EYD I
- M
AN TOVAN I
1970:206-207;
V
ARGIU
1974: 25;
D
O RE
1976:97-106;
G
IRALD I
1979: 16;
A
RCE
1982:236-238;
S
CRIMA
1982:400-418;
M
USICA
1983-84: III 652, IV 624;
S
PAN U
1989: 83-84, 97;
T
UCCI
1991: 195
F
ONTI D
’
INFORMAZIONE
F
ED ELE
C
ABRAS
(Q
UARTU
S
ANT
’E
LEN A
);
G
IO VAN N I
L
ONGONI
(Q
UARTU
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’E
LEN A
);
A
NTONIO
O
RRO
(S
AN
V
ERO
M
ILIS
)
R
IFERIMENTI
F
OTOGRAFICI
:
10, 14, 92, 137-146
138. Alfred Mimaut,
Paysans et costumes sardes
,
litografia, da M
IMAUT
1825: tav. f. t.
139. Suonatore di
sulittu
(
pipaiolu
)
e tamburinu
,
da F
ARA
1940: tav. V
137.
Sulittu e tamburinu
(
suittu e tambuniu
, San Vero
Milis), tamburo cm 20,5,
ø cm 21; mazzuolo cm 20;
flauto cm 46, ø cm 1,8;
già di proprietà di
Giuseppe Orro (1914-1993).
Il tamburo è stato costruito
presumibilmente nella
seconda metà dell’Ottocento;
il flauto è invece più recente
ma anteriore agli anni
Cinquanta di questo secolo