L’editto delle chiudende era stato uno shock vero e proprio per le popolazioni, soprattutto per quelle pastorali dell’interno, che videro il territorio del pascolo e della transumanza frazionato e impedito dalle recinzioni. Com’è noto, le vicende di quel periodo si caratterizzarono con sopraffazioni per lo più illegali o al limite della legalità da parte dei potenti e dei privati. Le conseguenze furono le proteste della popolazione, che degenerarono nelle devastazioni dei muri a secco e delle recinzioni, e che videro una dura reazione dello Stato, con arresti e persino alcune esecuzione capitali. Non fu solo uno stravolgimento sociale, ma anche una rottura traumatica della rappresentazione antropologica dello spazio, perché, come scrisse Lilliu, L’istituto della proprietà “perfetta”, instauratosi in Sardegna dopo le riforme sabaude (...) si accompagna a una nuova ridefinizione del rapporto uomo-ambiente. Trasforma ancora una volta il paesaggio. Sono limitati e ricomposti gli ambiti del luogo di sfruttamento e quelli di circolazione delle comunità e dei singoli, soprattutto nel mondo dei contadini. I muri a secco, la chiusura dei percorsi tradizionali, la nuova regolamentazione dei saltos, tutto quanto viene introdotto per privilegiare l’agricoltura secondo la linea economica fisiocratica contro le fermentazioni inopportune dei “comunisti”, cioè dei pastori, e per il cosiddetto “rifiorimento della Sardegna” inducono proprio alla rivolta dei pastori al grido di a su connottu (Lilliu, 2002, p. 437). Tra le soluzioni attuate dallo Stato per combattere queste ribellioni, vi fu proprio quella di tagliare i boschi, rifugio dei ribelli. Il disordine sociale, indotto dai nuovi provvedimenti, creò una sorta di circolo vizioso fornendo il pretesto allo Stato per proseguire, con nuovi giustificati motivi, gli obbiettivi degli interessi economici di cui si faceva portatore, e che erano gli stessi che avevano provocato il disordine sociale. Un circolo vizioso che è un classico nei rapporti di forza sociali, al quale si assiste ancora oggi in contesti politici in diverse parti del mondo. In quegli stessi anni ferveva il dibattito all’interno della Reale Società di Agraria ed Economica di Cagliari, tra i fautori di radicali riforme a sostegno dell’agricoltura, e chi sosteneva anche l’importanza del comparto economico fondamentale dell’isola, la pastorizia. Tutti però concordavano nel prestare massima attenzione allo stato delle foreste. Tra questi uno dei più autorevoli rappresentanti della società, Giuseppe Siotto Pintor, che nel 1836 lanciò l’allarme sul dissennato sistema di distruzione in corso nell’isola. Erano gli anni in cui lo stesso La Marmora, ricoprendo l’incarico di Commissario Regio per la Sardegna, protestò contro la richiesta di un imprenditore di Modena per il taglio di 100.000 piante, e si oppose duramente ai 200.000 ettari di bosco concessi alle ferrovie. Per questi atteggiamenti il nobile piemontese fu criticato aspramente dall’entourage del Governo. Non erano permesse, sull’argomento, posizioni illuminate a sostegno degli interessi dell’isola. Undici anni dopo l’emblematica denuncia del Pintor, nel 1847, uscì Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna di Carlo Baudi di Vesme, che è utile per capire il tenore cha animava i rapporti politici tra il governo piemontese e la Sardegna con le sue risorse naturali. Membro di una famiglia patrizia piemontese, funzionario, giornalista, parlamentare e studioso di antichità, lo troviamo nel sud dell’isola come imprenditore agricolo: un oliveto a Iglesias, un’azienda modello a Serramanna, che poi rivenderà per entrare nel rinascente business delle miniere sarde. Egli prese in considerazione la questione forestale dell’isola, rendendosi conto degli squilibri che le nuove leggi di abolizione dei feudi stavano provocando. È anche consapevole della distruzione dei boschi in atto: D’altronde, a differenza delle terre coltive, si suole trarre profitto da essi distruggendoli; e già troppo ne fu distrutto, esclamò (Baudi di V., 2004, p. 101). Ma la sua preoccupazione riguardava il fatto che in Sardegna i boschi erano tutti demaniali, e gli usi civici ademprivili come quello della raccolta di legna per i forni per il pane, ne impedivano migliore utilizzo. Appare dunque evidente che lo scopo del governo nell’accennato Editto sui boschi fu quello di trarre guadagno dalle foreste, e di salvarle insieme alla distruzione che le minacciava. Finora, non computando qualche vendita parziale di tagli di legname, nulla fu fatto pel primo di questi due oggetti. (...) Non potrò mai raccomandare abastanza, in questa come in ogni cosa sarda, la necessità di abolire tutti gli ademprivi, né i demaniali soltanto, ma anche i comunali, sicché il pascolo né legna né cosa alcuna s’abbia fuorché con pagamento. Senza di ciò non potrà fare mai progresso l’agricoltura, e poco l’industria, e con esse la prosperità del paese. Più ambiguo è il modo in che convenga trarre profitto dei boschi che rimarranno al demanio. Negli scorsi anni le strettezze delle finanze fecero che si guardasse più all’utile del momento, che al buon governo dei boschi; e furono fatte