prima e dopo l’unificazione, ma specialmente in seguito alle leggi sugli ademprivi, si riattivano nell’isola, più al nord che al sud, le imprese di colonizzazione, di frequente a copertura di operazioni che hanno come mira lo sfruttamento dei boschi. Nel 1856 è lo stesso Cavour a dar via libera la conte Pietro Beltrami nelle sugherete del Marghine, e successivamente anche a Emmanuel Modigliani nei salti sulcitani di Gessa e Oridda. In quell’anno, in effetti, c’è una vera fibrillazione della speculazione internazionale che preme sugli ambienti governativi e parlamentari per la stipula di convenzioni talora fantasiose con l’unico obbiettivo del saccheggio forestale (Ortu, 1998, p. 247). I numerosi casi di svendite dei boschi da parte dello Stato mostrano un aspetto dell’affaire poco chiaro. Come il caso citato sollevato dal La Marmora, relativo alla vendita di una vasta estensione boschiva nella Valle d’Oridda al conte Beltrami, pagabile con rate trentennali, conseguita con l’appoggio politico determinante di Cavour. Beltrami, che passò alla storia con l’epiteto datogli dal La Marmora di Attila, imperversò per diversi anni con i suoi boscaioli in diverse parti dell’Isola e, in particolare, nei monti del Marghine e dell’Iglesiente. Lo Spano notò che, a causa dell’intensità dei tagli, si disseccò il famoso torrente della grotta di San Giovanni a Domusnovas (Lei-Spano, 2000, p. 355). In realtà è probabile che il Beltrami e il Modigliani non fossero più vandali degli altri speculatori venuti all’epoca in Sardegna (Beccu, 2000, p. 269); anzi sembra che, grazie alle autorevoli denunce dell’Amat di San Filippo, almeno il Modigliani provvedesse in parte a limitare i danni (Beccu, 2000, p. 280). È anche vero che gli speculatori che si aggiudicarono i beni demaniali, all’asta o con trattativa privata, non fecero sconti certamente all’ecologia dell’isola, e “scotennarono” regolarmente il soprassuolo boschivo senza alcuno scrupolo, non fosse altro perché quello era lo scopo dichiarato, non certo farne aziende agricole modello. Per cui non si può tacciare il La Marmora di aver esagerato con il suo giudizio (Beccu, 2000, p. 269). Ma lo scandalo di queste vendite, in realtà, stava in un gravissimo elemento di novità: lo Stato aveva gettato la maschera con Cavour, la più autorevole delle sue figure; economia e politica si erano intrecciate in una complicità ferrea contro le resistenze che cercavano di impedire il consumo della risorsa boschiva dell’isola. Negli anni ’70 il Cherchi-Paba si indignò nel raccontare che Quando i comuni sardi riscattavano le terre feudali, corrispondendo alla Corona un tanto prestabilito e obbligandosi a corrispondere alla stessa un canone enfiteutico per le stesse terre feudali, i comuni intesero ed erano nel giusto diritto di pretendere il possesso di diritto e di fatto. Ma lo Stato non fu di quest’avviso; malgrado le violente polemiche, i validi ragionamenti portati in parlamento, specialmente dall’On. Giov. Antonio Sanna, e dagli altri deputati sardi; Cavour tagliò corto, e valendosi di un voto del Parlamento a lui favorevole, demanializzò le terre di ademprivio e di cussorgia allo scopo di farne, come ne fece, un’ignobile speculazione, col cederne le centenarie foreste agli speculatori per fare danaro necessario alla Stato in guerra. Malgrado la saggia proposta del Cattaneo, del 1857, di far devolvere le somme incassate alla vendita delle foreste dei beni ademprivili e di cussorgia a un fondo speciale da impiegare in opere pubbliche in Sardegna, Cavour con una caparbietà degna di miglior impiego, negò ai sardi simile beneficio e, perpetrando un’azione di clamante ingiustizia, distrusse la più bella, grandiosa, antica ricchezza che la Sardegna possedeva e che tutti i popoli, suoi dominatori, avevano rispettato gelosamente: i boschi (Cherchi-Paba, 1977, p. 513). Ci avviamo ad una fase convulsa dello stato fondiario dell’isola. Nel 1863, con un’apposita legge, lo Stato cedette ad un imprenditore inglese, tale Semenza, ben 200.000 ettari di bosco in cambio dell’infrastruttura ferroviaria dell’isola. Sarebbe stata la “soluzione finale” della copertura boschiva dell’isola se i comuni non si fossero opposti tenacemente, per cui la Compagnia Reale delle Ferrovie Sarde dovette accontentarsi di “soli” 18.000 ettari. La vicenda dei 200.000 ettari alienati per l’appalto delle ferrovie fu uno dei più emblematici del disboscamento sardo (Lei-Spano, 2000, p. 314). A causa delle resistenze dei comuni e delle popolazioni, infatti, lo Stato faticava a convertire i beni demaniali in proprietà privata: gli usi civici continuavano a rappresentare un ostacolo invalicabile al processo di privatizzazione dell’isola. Per cui, nel 1865, lo Stato tagliò la testa al toro proclamando la definitiva abolizione degli ademprivi. Lo fece scaricando la patata bollente ai comuni, che si videro obbligati e prendersi in carico i terreni demaniali con l’obbligo della loro vendita, una volta risolto il problema degli usi civici con spartizioni che divennero un guazzabuglio così inestricabile che ancora oggi, dopo un secolo e mezzo, pendono numerose le cause presso i tribunali, nonostante l’istituzione di un commissario regionale apposito. I beni ademprivili cacciati dalla porta rientrarono dalla finestra, perché molti comuni si rifiutarono di vendere ai privati i boschi gravati d’uso civico, restando nella libera disponibilità della popolazione. Sono proprio questi boschi comunali ad essersi salvati dalla scure, ed essere giunti sino ai giorni