Al centro dell’altopiano – dove il calcare è più duro e resistente, lo scolo delle acque ha trascinato anche argille – si distendono grandi foreste con piante di quercia di leccio, quasi tutte, e all’altezza di 20 – 30 metri: foreste vergini e inconsuete, per densità, in ogni altra regione d’Europa, dalle quali, quasi, non meraviglierebbe veder spuntare un mostro preistorico. Fitti intrichi di rami – quasi simili a liane – e fogliame tutto distrutto dai bruchi, sono di tanto in tanto interrotti solo da spianate di enormi querce spiantate dal fulmine. Per intere stagioni qui i fulmini dominano con il loro fuoco elettrico e, di tratto in tratto, fanno di grandi piante secolari mucchi di ceneri. (...). Questo è il Supramonte, il più isolato territorio di Sardegna, il cuore dell’Orgolese, tutto avvolto nel mondo minerale, vegetale, animale; misterioso, oscuro come il territorio di un altro pianeta (Cagnetta, 2002, p. 56). In questo caso però, la natura aspra e severa non è priva di boschi, tutt’altro. Se ne ricava la testimonianza dell’altura calcarea del Supramonte, un luogo boscoso considerato oggi dai botanici un caso unico di foresta allo stato naturale, proprio nel regno esclusivo dei pastori, inaccessibile a qualunque possibilità di utilizzazione intensiva. Ciò mostra, in maniera inequivocabile, se ve ne fosse bisogno, che la distruzione delle foreste si è patita nei luoghi accessibili alla speculazione, e non in quelli frequentati dalla pastorizia. Anche se Sul finir dell’autunno – mi diceva il più anziano – cade la neve e sui pascoli si stende come un mantello bianco. Parecchi di noi non riescono a trovare pascoli in pianura per mancanza di denaro e restano in montagna. Per due anni io ho dovuto una volta restare al Supramonte. La nostra casa non è in paese ma è un ovile, per molte notti una grotta o una quercia bucata. Il verde sparisce per uno o due mesi. Il bestiame comincia a tremare di freddo, èaffamato, corre in cerca di steli, di fronze, come anime dannate. Qualche pecora muore nei precipizi, qualche altra sviene, ha le convulsioni. Mi ricordo l’annata 193... in cui ho visto tutto il suolo ricoperto di cadaveri di pecore che la neve ricopriva. Non ci si può difendere che tagliando alberi e facendo fuochi, o incendiando cespugli e bosco basso. Notti e notti restiamo all’aperto abbracciati con le pecore per riscaldarci. Quando la pioggia comincia e la neve sparisce usciamo fuori dai mali peggiori. Comincia la primavera.” (Cagnetta, 2002, p. 59). La vita del pastore, con la privatizzazione delle terre, era diventata durissima. Le difficoltà economiche conducevano i pastori spesso al limite della sopravvivenza fisica. In questo contesto si inquadra quell’utilizzo per necessità delle risorse della natura. L’utilizzo del bosco e delle piante da parte del pastore, come la sramatura per nutrire il bestiame d’inverno e i tagli di piante per riscaldarsi, pare essere però improntato alla consapevolezza dell’emergenza, ad un uso straordinario per causa maggiore, ad un rimedio estremo. Nel suo libro I pascoli erranti, Giulio Angioni descrisse il rapporto tra il pastore e lo spazio agreste, come (...) già dato. E in questo senso egli vede, “legge” lo spazio, rispetto al non pastore e in particolare rispetto al contadino, “in negativo”: vede l’utile e il pieno proprio là dove gli altri utilizzatori dello spazio ci vedono l’inutile, il vuoto, l’intermedio. Il pastore occupa sempre tutti gli spazi inutilizzati da altri quando può utilizzarli al suo scopo di procurare cibo e riparo alle sue bestie (Angioni, 1989, p. 62). La rappresentazione dello spazio dei pastori, secondo Angioni, è completare a quella dei contadini. All’interno di un rapporto conflittuale non vi è negazione tra i due mondi, che stabiliscono una lunga interrelazione che verrà sconvolta solo con la privatizzazione delle terre. Angioni, a differenza di Pigliaru, non ritiene che i pastori considerino la natura come nemica; è lo spazio sociale, inteso come quello regolato dalle norme sul possesso, e che favoriscono la stabilità piuttosto che il nomadismo, ad essere di ostacolo: Ma se per il pastore sardo lo spazio naturale è più o meno utile e benevolo come fornitore di cibo, acqua, riparo e sosta per il gregge, lo spazio sociale, regolato dalle norme del possesso, è in grande misura solo nemico, avversario, luogo della competizione e della lotta, dell’abilità tattica e strategica più dura e difficile. (Angioni, 1989, p. 63). Questa visione dello spazio pastorale ci fa comprendere meglio l’asprezza del conflitto che può essere sorto nell’800 tra i pastori e le leggi di privatizzazione delle terre. La rivolta de “su connottu” è solo la manifestazione di un disagio che