diventata senso comune tenacissimo: l’incendio è tipicamente doloso, si ripete, ed è tipico del pastore e delle aree pastorali. Siccome poi in Sardegna l’incendio agrario e boschivo è presente dappertutto anche dove non è rilevante la presenza della pastorizia brada, allora è sempre possibile trovare che dappertutto i pastori arrivano in transumanza: che però in Sardegna è invernale. Mentre l’incendio è estivo. (Angioni, 1989, pagg. 231ss). Nel “Libello contro gli incendiari”, Angioni analizza il rito di colpevolizzazione sociale dell’incendiario, come liberazione dalle responsabilità collettive colpose, sgravando, nel contempo, il pastore dalle responsabilità di essere il peggior colpevole. Di diverso avviso, tra gli altri, l’ecologista Raniero Massoli-Novelli il quale, negli stessi anni ’80, in pieno periodo di “furor” ambientalista, scriveva: Non si può certo negare che negli ultimi anni la secolare piaga degli incendi in Sardegna si sia arricchita di nuove motivazioni (...). Ma non è possibile, per chi gira in Sardegna e non ha interessi elettorali, negare l’esistenza di una “cultura del fuoco” tipica dei pastori sardi e persino esportata in altre regioni che ne erano prive. Eppure tanta, troppa gente parla di “piromani” come si trattasse di estemporanei o pazzoidi personaggi e pochissimi osano infrangere il mito del pastore, simbolo sempre più attuale della cultura e dell’economia dell’isola. Malgrado manchino degli studi (...) studiosi di serietà indiscussa, dal geografo francese Maurice Le Lannou in poi, hanno indicato il pastore come principale artefice degli incendi estivi. È evidente che non si vuole colpevolizzare un operatore economico tradizionale ed importante (la pastorizia è in ulteriore aumento negli ultimi anni), che cerca, in condizioni di vita certamente disagevoli, di far crescere un poco di erba in più (...). (Massoli-Novelli, 1986, p. 119). Insomma, l’antropologo Angioni, biasima il luogo comune del pastore incendiario, mentre Massoli-Novelli, l’ecologista, accusa il luogo comune opposto del pastore “non” incendiario. Questa divergenza eredita una radicalizzazione delle posizioni che, con modalità diverse, ripercorre un po’ tutta la storia della Sardegna, imperniata da sempre nella dialettica tra pastori e contadini, e che ha visto, a partire dall’800, una nuova divergenza nascere tra i “cittadini” e i “campagnoli”. La cultura ecologica è tipicamente cittadina, spesso slegata dai processi produttivi delle campagne e dalla mentalità rurale, alla quale invece l’antropologo, per impostazione professionale, tende ad avvicinarsi. Ma abbiamo visto che l’uso del fuoco da parte del pastore non aveva intaccato l’ecologia dell’isola, e non aveva provocato la distruzione del patrimonio boschivo che poi è avvenuta nell’800 con i tagli intensivi. La colpevolezza della pastorizia di quegli anni riguardava soprattutto la perdita di valore economico del legname. Il pastore e l’agricoltore, in genere, rispettavano il bosco, in quanto utile all’economia rurale, a differenza della macchia degradata, che invece era ritenuta inutile. Il rispetto per i vari gradi evolutivi della vegetazione presuppone la consapevolezza che essa possa tornare ad essere il bosco di una volta; tutto ciò va oltre l’immaginario dell’uomo che si trova affaccendato nell’immediatezza del quotidiano. L’uomo della campagna definisce la macchia degradata “su brutu”, “lo sporco”, con disprezzo. Bruciare la macchia residua non rappresenta per la comunità agro-pastorale un’azione riprovevole, censurata dalla regola consuetudinaria. È uno dei motivi per cui il mondo agreste sardo, dopo il disboscamento, non si è curato di proteggere la macchia che si formava dopo il taglio, in attesa che essa tornasse ad essere bosco, sempre che le condizioni ecologiche fossero favorevoli. Il disboscamento dell’800 ha svilito, agli occhi del pastore e del contadino, anche il rispetto per il bosco, che perdeva la sua inviolabilità e veniva trasformato in una cosa sporca e inutile. Oggi il rapporto tra il pastore e la natura è mutato. L’uso del fuoco ha perso la sua funzione di strumento colturale per diventare, spesso, sistema di indebita appropriazione di fette di territorio, a scapito di altri eventuali usi. La stessa perizia nell’uso dello strumento “fuoco” da parte dei pastori, cioè quella conoscenza dei fenomeni naturali che impediva l’incendio preterintenzionale, è andata peggiorando con le generazioni. Il progressivo distacco con l’uso funzionale della natura si è tramutato in un approccio consumistico e distruttivo, che ha comportato, per un periodo, la recrudescenza del fenomeno degli incendi di origine pastorale.