A questo proposito Michelangelo Pira scriverà ne “La rivolta dell’oggetto”, che il mondo agricolo e soprattutto pastorale della Sardegna, sino ancora agli anni ’60, “rifiutavano la riduzione della vita alla vita economica, alla categoria dell’utile, cioè alla mutilazione della vita affettiva, delle sorprese sociali e della possibilità di controllarle”, e non riducevano le proprie aspirazioni sociali a conquiste lineari e quantitative. Pira rispondeva agli studi di quell’epoca, come quello del sociologo Alberoni, tendenti al “produttivismo”, così in voga nell’era in cui vigeva la semplicistica equazione sviluppo uguale industria, e in cui si tacciava la cultura sarda di essere priva di fattori culturali autoctoni di sviluppo economico”, in quanto la cultura contadina e quella pastorale, è vero, nel 1960 ancora non si ponevano il problema dello sviluppo in termini di aumento del reddito pro-capite, degli investimenti e dell’attrezzatura produttiva. Non riducevano le proprie aspirazioni a conquiste lineari. (...). Ma ciò non significava che mancasse l’idea di “progresso come accrescimento progressivo di benefici per la collettività umana”, come sembrava ad Alberoni. Quel che mancava ancora era un’identificazione di questi benefici con quelli offerti dallo sviluppo capitalistico” (Pira, 1978, p. 445). Quando al pastore sardo di Bottiglioni si impose un modello di sviluppo, attraverso la privatizzazione della terra, che generò il crollo della sua economia di sussistenza, non gli restò altra scelta che lamentare allo Stato un’alternativa alla sua pregressa condizione. In mancanza di alternative, in genere consistenti, all’epoca, nelle miniere, o nella manovalanza proprio del disboscamento, e più recentemente nell’industria, il pastore proseguirà, deformandoli alla nuova situazione, con i vecchi modelli di sussistenza. Ad esempio, cercherà pascoli laddove non ve ne sono mai stati, sottraendoli alla ricostituzione del bosco. Quando i cowboys colonizzarono con il loro bestiame le immense pianure steppose del Nord-America, sterminarono le concorrenti mandrie di bisonti, che rappresentavano non solo il sostentamento dei nativi, ma anche il centro di un loro sistema magico-rituale legato alla natura. Eliminati i bisonti si scardinò anche il riferimento culturale di tutto un sistema di concezione dell’universo. Mutò anche l’ecologia del territorio: le specie vegetali della prateria americana vennero sostituite dalle essenze pabulari più adatte alle sterminate mandrie di bovini. È in casi simili che la comunità, disorientata dalla perdita dei riferimenti culturali e religiosi, finisce per rimettersi al sistema culturale della società più dinamica. Una delle narrazioni più efficaci sul contatto tra civiltà diverse, oltre naturalmente a Tristi tropici di Levi Strauss, è il libro di Bruce Chatwin Le vie dei canti, tra gli australiani di origine europea e gli aborigeni, con il degrado sociale e morale e la corrosione delle tradizioni che investono quest’ultimi. Il senso della natura si sgretola di fronte alla civiltà esterna, che sembra poterne fare a meno. Più di frequente, il contatto tra le società calde e le società fredde assume i contorni di una conquista militare, se non addirittura di un vero e proprio genocidio. La diffusione delle società tecnologicamente più avanzate a scapito delle altre è stata efficacemente descritta nel saggio divulgativo Armi acciaio e malattie – breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, di Jared Diamond, dove si narrano gli eventi che hanno portato alla sottomissione militare, economica e politica dei popoli meno attrezzati non sul piano culturale, morale o filosofico, ma bensì su quello esclusivamente tecnologico. Situazioni come quelle coloniali, africane, americane o australiane, possono essere utili, come esempi estremi, per comprendere quanto è avvenuto in Sardegna. Basterebbe considerare la storia dell’Irlanda per scoprire sorprendenti analogie con la Sardegna, specialmente nel rapporto con la madrepatria, la privatizzazione della terra, la monocoltura indotta. Come ha scritto Jeremj Rifkin, la passione britannica per la carne ha avuto un effetto devastante sulle popolazioni impoverite e deprivate di Scozia e Irlanda. Fra le due colonie celtiche, l’Irlanda ebbe la sorte peggiore. Scacciati dai pascoli migliori e costretti a coltivare piccoli appezzamenti di terre marginali, gli irlandesi si dedicarono alla coltura della patata: un ortaggio che può produrre raccolti abbondanti anche in terreni relativamente poveri. Alla fine, i bovini presero possesso della maggior parte del suolo irlandese, lasciando la popolazione locale completamente dipendente dalla patata per la sussistenza. Il resto della storia è noto: a metà dell’800 una malattia dell’ortaggio, favorita dall’eccessivo sfruttamento monocolturale del suolo, provocò la terribile carestia ricordata per aver dimezzato, tra morti ed emigrati, la popolazione irlandese. Pochi hanno messo in relazione questa terribile carestia con il fatto che l’Irlanda, precedentemente, era stata completamente disboscata per fare spazio alle colture e ai pascoli, e il suo equilibrio ecologico era stato completamente