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28. Il Gran Tamburo
All’indomani l’alba fu più tarda ad affacciarsi ai colli
di Calangianus. Neri nuvoloni correvano il cielo, so-
spinti da un vento furioso di tramontana.
Era uno degli ultimi giorni di marzo. Le punte del
Giugantino, ricoperte di neve, spiccavano nettamente
nel cielo nerissimo, il quale somigliava ad un manto fu-
nereo steso sulla Gallura.
Lontan lontano udivasi un urlo cupo, prolungato, la-
m
entoso. Pareva l’urlo d’
una lupa che chiamasse al
covo i lupicini, per metterli al sicuro dalla tempesta im-
minente, annunziata da un improvviso acquazzone.
Le aguzze creste dei monti d’Aggius, che prima pare-
vano sfidare l’ira degli elementi, erano ad un tr
atto
scomparse sotto una nuvola nera. Avresti detto che sulle
punte maledette si covasse un delitto che si voleva na-
scondere all’occhio degli uomini. Il diavolo si compiace
di lavorare nel mistero degli uragani.
Il sole, durante la giornata, non era riuscito a fare uno
strappo al denso velo che ricopriva la volta celeste, ma
l’orizzonte, a ponente, era
solcato da spessissimi lampi.
Gli uomini della campagna assicuravano che la sera sa-
rebbe stata uguale al mattino, e la notte assai più tempe-
stosa della sera.
Ond’è che ognuno aveva
curato di met-
tere in salvo i propri armenti, ritirandoli negli ovili.
Gli aggesi erano rientrati nelle loro case, e si erano
rinchiusi per mettersi al sicuro dalla collera di Dio, e da
quella degli uomini, più temibile ancora. I bambini si
erano rintanati in fondo alle stanze; le vecchie mormo-