E mentre io correvo per schivare i suoi colpi, non ap-
pena avevo un margine di sicurezza, mi voltavo dispe-
ratamente per vedere se finalmente la tempesta fosse fi-
nita. Dietro di me, purtroppo, vedevo sempre i nembi e
i lampi della sua rabbia. Come un cane idrofobo e privo
della serenità della ragione, mi raggiungeva continua-
mente e mi colpiva di nuovo. Preso dal fantasma della
violenza educativa, non guardava. Colpiva e basta.
Mi sbatteva ritmicamente il cespuglio in faccia. Il
suo braccio era divenuto il pendolo della sua rabbia.
Ogni volta che mi voltavo lo prendevo in faccia netto.
Questa “aia cruenta” si protrasse per oltre dieci minu-
ti sgattaiolando tra i rovi, i cespugli e i massi dei din-
torni della capanna. E durò più del solito per una ra-
gione che allora non conoscevo. Perché cercavo scam-
po nella corsa. Io non lo sapevo che avrei dovuto sub-
ire la punizione e i colpi stando fermo. L’istinto mi
suggeriva la fuga. Non conoscevo quelle regole! Così
si verificò il tragico paradosso, che tanto più cercavo
scampo tanto più subivo la violenza e tanto più lui mi
s’aizzava contro.
Finalmente dopo dieci minuti di “aia cruenta”, quan-
do mi vide sanguinante in faccia, con gli occhi gonfi e
arrossati (
cun sos ojos rujos dae su sàmbene
), il ciclone
pedagogico cessò. Il “maestrale” fugò quei nembi co-
me per incanto. Il ruggito educativo ammutolì nella
schiarita, ma era troppo tardi.
Lì per lì, non si rese conto della gravità della cosa. Mi
lasciò al pianto desolato appoggiato a un macigno.
Sbraitò. Mi spruzzò le sue bestemmie che riepilogava-
no la lezione e andò a portare la mucca per mungerla.
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