Nicolò scrisse molto nelle lunghe ore passate in cella, ma pochissimo della sua esperienza di murato vivo.
Quindici anni da recluso lo avevano annichilito e ora, di fronte al tribunale chiamato a riabilitarlo, appariva come
un bimbo intimidito, incapace di trovare l’oratoria che nel passato aveva fatto tremare i suoi nemici.
Rispose al presidente a monosillabi, quasi indifferente e tale rimase anche quando il giudice cercò di metterlo a
confronto con Bernardo Nieddu. Non lo guardò neppure, lo ignorò come l’incubo di un passato segnato da un dolore
senza confini. E Nieddu ancora una volta guardò quel galeotto dal cranio rasato senza riconoscerlo. Erano a
confronto due uomini distrutti, uno dall’amarezza, l’altro dalla follia. Due vecchi, che abitavano in due mondi
distanti, senza possibilità di incontro: Bernardo senza ricordi, Nicolò solo con la memoria di una tragedia devastante
che non rilascia echi sul futuro.
Rosa lo osservava tra le lacrime, in quell’aula dove il dolore soffocava ogni emozione.
Poi lo abbracciò stretto, sembrava cullarlo per un attimo, ma Nicolò sembrava indifferente, perso in un abisso di
angosciosa estraniazione.
Il dibattimento vide poi alla barra altre vittime indirette del dramma giudiziario: Luigia Foddis, vedova di Antonio
Lorrai, una contadina di 48 anni, carica di famiglia e in totale miseria, e Giulietta Ferrai, figlia di Parlatariu, presente
al posto della madre Maria Scattu. Luigia non aggiunse nulla alla denuncia dei condannati e si ritirò avvolta nel suo
vestito nero di vedova e madre sventurata.
Giulietta invece apparve combattiva, ben decisa a vendicare l’onore del padre morto in carcere. Aveva ventisei
anni e ricordava bene il giorno in cui suo padre fu trascinato in carcere carico di catene. Guardava Nieddu con
disprezzo e raccontava al presidente i motivi dell’odio verso suo padre: «Nieddu, sindaco del paese, era prepotente e
in occasione della processione del Corpus Domini aveva fatto tagliare dei cladodi di ficodindia facendoli depositare
nel piazzale di casa nostra... mio padre si era infuriato e li aveva buttati in mezzo alla strada. Nieddu lo aveva
querelato e mio padre era stato condannato a un anno di carcere, ma fu assolto in appello mentre Nieddu dovette
pagare le spese processuali». Il presidente la guardava quasi incredulo... un fatto banale che in quel l’ambiente
grondante odio aveva provocato una tragedia.
Giulietta ricordò al presidente che a casa l’attendevano i fratelli che erano cresciuti con un ricordo tenue del padre
condannato... Petronilla, Giuseppe e Caterina... poi le mancò la voce e si ritirò.
E fu la volta di Ettore Businco.
Ettore Businco aveva trentatré anni quando si celebrò il processo di revisione che avrebbe dovuto fare giustizia e
rendere la libertà al padre. E da dodici anni aveva cercato con fede incrollabile le prove dell’innocenza paterna. Ora
si presentava davanti al giudice a testa alta, consapevole di aver svolto un’opera titanica e sacra.
Il presidente lo osservò con interesse e lesse negli occhi di quel giovane un animo sereno. Nessun odio in quello
sguardo, forse neppure un lampo di vendetta. Ettore era in quell’aula muta e attenta un angelo del bene inviato per
restituire agli uomini la fiducia nella giustizia.
Era alto, la fronte ampia, i capelli nerissimi adagiati in onde appena accennate. Il viso squadrato, severo, con
occhi attenti, le labbra ben disegnate sottolineate da baffi curati. Vestiva un abito scuro, che teneva abbottonato, e la
camicia dal colletto alto e rigido era fermata da un papillon nero. Le mani lunghe, candide, che si giungevano in
un’attesa calma. Tutto in Ettore evidenziava una personalità matura, misurata. Parlò con voce sicura, con logica
stringente: «Sono convinto dell’innocenza di mio padre e ne devo rivendicare l’onore, dato che se avessi saputo di
una sua qualsivoglia partecipazione all’omicidio, avrei sopportato la croce cercando di redimere con il lavoro il
nome che porto...
«Il bandolo della matassa mi fu dato da Priamo Melis Boi di Ierzu pochi giorni prima che cominciasse il processo
di Oristano nel 1898. Questi era servo pastore di Bernardo Nieddu e mi disse che il padrone aveva subornato i testi
per accusare Parlatariu. Uno di questi, Giovanni Lai Cariccia, fu avvicinato dai miei zii Antonio Piga e Vittorio
Corgiolu, ai quali confermò il suborno, ma a Oristano ritrattò. Dopo la condanna, lo avvicinai io e lui mi confermò
tutto facendomi i nomi degli altri subornati: Chillotti, Murgia, Mereu e i due Loddo furono corrotti dallo stesso
Nieddu, mentre Gavino Lai e Domenico Melis, cognato del Nieddu, furono comprati da un nipote di Bernardo, che
li ricevette a casa sua. Fu il Nieddu, tramite il cognato di Ruggero, avv. Atzeni, a pagare la parcella agli avvocati di
parte civile Fara e Sanna Randaccio, che si aggiunsero senza che gli stessi familiari lo sapessero all’avvocato Siotto
Elias, chiamato dalla vedova in regime di gratuito patrocinio. Intuivo la congiura, ma inizialmente rischiai di cadere
ingenuamente nelle suggestioni di alcune false prove. Come quando mi fu detto che certo Giovanni Battista Lai
Carronarbu aveva confessato alla moglie in punto di morte di aver ucciso Ruggero Tedde. Ci credette anche il
vescovo mons. Paderi, prima che scoprissi che in realtà era stata una stolta macchinazione di mio zio Vittorio».
Ettore tacque per alcuni minuti, poi, nel silenzio assoluto del pubblico, disse a voce alta: «L’assassino è di