senza che qualcuno impazzisca o tenti di togliersi la vita o con strangolamento all’inferriata, o sbattendo il capo
contro il cancello di ferro, o gettandosi dai corridoi nell’ora di passeggio. È un vero pandemonio, un urlare, gridare e
vociare continuo di menti sconvolte a tutte le ore.
Un mio vicino, Gaetano Marino, siciliano, sorprendendo la sorveglianza delle guardie, nel rientrare dal passeggio,
si buttò dal pianerottolo delle scale al primo piano che fortunatamente si ruppe solamente la rotella del ginocchio;
Tassoni G. Battista, piemontese, scavalcò la ringhiera del ballatoio del primo piano andando a passeggio, buttandosi
al piano terreno che gli produsse una larga ferita al capo; un terzo si appiccò all’inferriata con la cordicella della
branda rimanendo cadavere ecc. ecc.
A questo malaugurato passo molti sono spinti dalla disperazione della solitudine, di una vita rigorosa, monacale
ed insopportabile, dall’abbandono delle loro famiglie, dalla fame che soffrono per mancanza di sovvenzioni
famigliari e dall’inoperosità forzata che li impedisce di procurarsi qualche mezzo di sussistenza.
La solitudine inoperosa – la vera morte morale del detenuto – diviene doppiamente trista e lunga a chi ha anche
l’altra disgrazia di non saper leggere, perché la lettura è passatempo e sollievo per il recluso.
XXXVII – U
N
MEDICO
INCAPACE
La vita, la sventura, l’isolamento, l’abbandono, la povertà sono campi di battaglia che contano i loro eroi oscuri,
ma talvolta più grandi degli eroi illustri.
V
ICTOR
H
UGO
Andando a letto avevo l’abitudine di dormire colla finestra aperta, sia perché l’ambiente si mantenesse meno
impuro, sia perché la stagione rigida ancora non era inoltrata.
Una notte, all’improvviso, si solleva un forte vento da farmi sentire la tremarella; mi alzo ignudo in fretta per
chiudere le imposte della finestra, ma quella levata mi è stata fatale. Ne ho avuto una forte tosse con catarro e dolori
di petto che, di giorno in giorno, vanno aumentando.
Gli sputi sono sanguigni ed ogni dì ne raccolgo quanto ne può stare in un guscio d’uovo, per mostrarli al
Sanitario.
È medico dello stabilimento il cav. Luigi Rossi – questi rossi mi sono fatali – uomo facoltoso e che in paese gode
buon nome come medico. Però, quasi come tutti i medici delle carceri, poca cura si prende dei detenuti, perché
vedono in loro dei veri nemici, in considerazione che hanno, o credono di aver, offeso la società.
Di tanto in tanto mi segno al medico, ma sempre mi dice che non è nulla, attribuendone la causa alla cella, mi
prescrive ogni tanto qualche infuso di papavero. Così passarono vari mesi; a tanto si deve aggiungere la perdita di
sangue emorroidale, dovuto al regime di vitto, così copioso quando vado di corpo, che molte volte pavento che
questo bisogno si faccia sentire per evitare l’abbondante salasso.
Ciò ne ha prodotto pure la perdita dell’appetito, la dilatazione di stomaco e l’esaurimento nervoso. Chiedo un
vitto sano e qualche ricostituente ma non è possibile. Quest’uomo è duro con tutti e quando carica un individuo alla
infermeria è segno evidente che di là non deve uscirne vivo se non per un miracolo di Dio. Le perdite sanguigne
continuano; per due giorni di seguito mi sono messo al Sanitario, ottenendo lo stesso negativo risultato.
Il terzo dì, all’ora mattinale della pulizia è venuta la guardia ad aprire; è un tale Cervelloni Rosario, giovine molto
semplice ma di altrettanto buon cuore per gli infelici, verso i quali trovava sempre una parola di conforto.
Gli ho mostrato il vaso, per pura curiosità, e ne è rimasto sconcertato.
Mi ha suggerito di segnarmi al medico e gli ho fatto presente che per altri due giorni mi sono segnato senza aver
potuto ottenere nulla di buono.
– Questo è troppo – disse e mi chiese l’asciugatoio per appenderlo all’esterno della porta, come si usava fare per
chiedere la visita medica.Glielo ho dato più per obbedienza che per sperarne qualcosa.
Anche le mutande ne erano inzuppate, sembravano bagnate in uno scannatoio pubblico. Mi son rimesso a letto
aspettando la visita del Macellaio. Entrò con aria burbera ed imperiosa e, senza aspettare che io parlassi, così tuonò
con la sua voce grossolana, rivolgendosi alla guardia di infermeria: – Questo è tre giorni di seguito che si mette al
medico e non ha nulla, fategli rapporto per malattia simulata.
Solo allora ho lasciato ogni riserbo e regola di galateo e gli ho mostrato il vaso mettendoglielo gentilmente sul
muso.
Poi ho preso le mutande e ho fatto altrettanto, limitandomi solo a dirgli: – Se questa è malattia simulata, non
saprei dire a qual altra dare il titolo di vera.