atteggiamento avrebbe assunto negli anni seguenti.
I testi su cui ruotò il processo erano gli accusatori di Parlatario. Se si fosse provato che lui era il sicario, secondo il
«teorema» del procuratore anche i suoi tre compagni sarebbero entrati nel reticolo infernale che li avrebbe fatti
condannare. Antonio Ferrai fu deciso nel respingere le accuse. Ripetè che la notte del 16 agosto, si era recato a
innaffiare il suo orto di Santu Perdu, alibi confermato da Domenico Mereu, Giuseppe Vargiolu, Cristoforo Deiana,
Gaetano Deiana, Domenico Corda e Agostino Scattu. Meno precisa, forse reticente, fu la deposizione di Fedele
Delussu: certo, ricordava che la notte del delitto era stato nel suo orto, vicino a quello di Parlatario e di averlo sentito
chiacchierare con Agostino Scattu, ma non ne era molto sicuro. Il Ferrai si appellò inutilmente alla Corte perché
venissero messi in stato d’accusa Salvatore Puddu e Domenico Ghiani, fidi compagni di Bernardo Nieddu, i quali, la
mattina dopo il delitto, avevano offerto danaro ai testi già citati e a Maria Pisano perché lo accusassero; e chiese
anche di inquisire Nieddu il quale, a sua volta, aveva chiesto a Ignazio Delussu e a Cristoforo Deiana di testimoniare
che lo avevano visto la mattina del 17 in
Su Monti ‘e su Cerbu
tornare da Perdasdefogu a Tertenia col fucile. Erano
deposizioni contraddittorie: Ignazio Delussu, che odiava Parlatario perché questi aveva testimoniato contro di lui per
l’omicidio Quai Mugheu, negò di essere stato comprato da Nieddu; Luigi Deiana, cognato di Ignazio Delussu,
sostenne che Parlatario non era nel suo orto la notte del delitto; Gaetano Deiana, insieme con la moglie Annetta
Seberu, affermò di avere visto Parlatario all’alba, nel suo orto, ma di non potere precisare se vi aveva passato la
notte; Giuseppe Delussu sostenne che gli risultava che si cercavano testi falsi contro Parlatario. Di queste
dichiarazioni contraddittorie si vollero ascoltare solo quelle favorevoli all’accusa. Eppure sarebbe bastato poco per
smontare alcune ipotesi accusatorie.
Si diceva che Raimondo Spanu, uno dei congiurati di S’Abba Frida, allora servo pastore di Priamo Murgia di
Ulassai, la notte del delitto fosse stato notato a Perdasdefogu da dove era scomparso dopo il misfatto; molti lo
avevano visto e a tutti aveva intimato il silenzio. E quando i familiari di Businco cercarono di convincere qualcuno a
parlare, fu lo stesso Spanu a minacciarli di non cercare “giornalieri”, cioè testimoni contro di lui. Il clima a Foghesu
era così teso che nessuno si sorprese quando Efisio Brundu, assessore comunale, si dimise dalla sua carica; ma non
si pensò di indagare sulle cause di quell’improvviso abbandono: si sarebbe scoperto che il Brundu, parlando con
alcuni amici di Ierzu, Francesco Valentino e la moglie Cecilia Orrù, aveva dichiarato di aver paura di fare la stessa
fine di Tedde, il quale era stato ucciso, secondo l’opinione pubblica, perché considerato responsabile dell’aumento
delle tasse comunali.
Si diceva anche che una parte dei falsi testimoni fosse stata reclutata a Ulassai da Nieddu, per la rispettabile cifra
di 500 lire, tramite alcuni suoi amici pastori. E precisamente: Gavino Lai avrebbe indotto Giovanni Lai Cariccia di
Foghesu, suo servo pastore, a testimoniare di avere visto Parlatario in
Su Sciaquadorgiu
la notte del delitto; lo stesso
Lai avrebbe cercato di coinvolgere nella congiura il cognato Antonio Murgia, che non accettò, mentre si assicurò la
collaborazione di Francesco Chillotti e Francesco Murgia, i quali al processo dichiararono di aver visto l’imputato in
S’Orgiola ‘e Tommasu
. Queste testimonianze “ulassesi” vennero messe a rischio da Priamo Melis, un giovane
contadino di Ierzu, che disse ai carabinieri di avere visto Nieddu mentre, a Oristano, dava disposizioni ai vari Lai,
Mereu, Murgia e Chillotti ai quali «pagò anche il pane e il companatico».
Nessuno si degnò di controllare quelle voci, che poi si sarebbero rivelate vere: ma solo sedici anni dopo, troppo
tardi per i condannati. Certamente inutili per Antonio Ferrai Parlatario, che morì in carcere nel 1903 con la fama di
sicario spietato. Chi lo condannò non si rese conto che era un povero cristo non un mostro diabolico: la mattina del
delitto era tornato a casa con un cesto di pomodori del suo orto, che consegnò alle figlie Petronilla e Caterina come
fa un padre laborioso e affettuoso, non un sicario in cerca di alibi.
Si volle mettere a carico di Parlatario anche il fatto che usasse scarpe di pelle non conciate; non era certo l’unico
poveraccio a non potersi permettere scarpe più lussuose e comode, ma vicino al famigerato finestrino da cui aveva
sparato l’assassino erano state trovate tracce di questo tipo di calzature e ciò valse a indicare in Parlatario il sicario
misterioso. Inutilmente, sia il sindaco di Foghesu, sia Francesco Pitzalis sostennero che la dinamica del delitto
escludeva che l’assassino potesse essere un forestiero e che Parlatario era troppo basso per poter sparare da quel
finestrino.
Antonio Ferrai Parlatario era un complice perfetto e obbligato: cugino di Giosuè, del quale era debitore solo del
grano che gli veniva donato in tempi difficili; nipote di Bernardo Piroddi, che gli aveva preparato il memoriale con
cui aveva cercato di dimostrare la sua estraneità al delitto Tedde.
Sommerso da queste “prove” il sicario, fu facile all’accusa trascinare nel gorgo gli altri tre accusati. In quella
logica infernale, Antonio Piroddi Lorrai era il complice che alcuni giorni prima si era recato a Perdasdefogu non per
espletare il suo compito di messo esattoriale, ma per preparare il terreno all’assassino indicandogli la casa di
Demontis, allargando il finestrino del muro di cinta, pronunciando la frase fatidica che avrebbe indicato il momento