Nel marzo 1908, Ettore Businco, il figlio generoso di Nicolò che con Marietta Ruda cercava le prove
dell’innocenza dei condannati, presentò da Ozieri, dove era applicato di P.S., un’altra denuncia contro i subornatori
e i falsi testimoni. Era infatti preoccupato perché i reati di suborno cadevano in prescrizione dopo dieci anni: tanti ne
erano passati dal giorno della condanna del padre e dei suoi compagni. La sua fu quindi una denuncia cautelativa,
che interrompeva i termini di prescrizione e concedeva il tempo necessario per concludere la sua inchiesta personale,
ormai arrivata al momento cruciale. Un’altra denuncia fu presentata da Rosa Corgiolu Businco al procuratore di
Lanusei il 7 dicembre del 1908 cui fecero seguito, nel giugno 1910, due lunghi memoriali, scritti da Giosuè Piroddi
e da Nicolò Businco, che ripercorrevano la vicenda giudiziaria e chiedevano giustizia. In essi si precisavano i fatti
già citati ma si aggiungevano nuovi elementi a favore dell’innocenza dei condannati. Fino a quel momento si era
cercato di scoprire i falsi testimoni: era arrivato il momento di individuare l’assassino del povero Tedde.
Nel passato si era puntato il dito contro Raimondo Spanu, ma era stato dimostrato che il giorno del delitto non si
era mosso da Ulassai.
La novità portava il nome di Giovanni Battista Lai Carronarbu, che, morendo, aveva confessato alla moglie di
essere stato lui l’assassino di Ruggero Tedde. La donna, accompagnata dal figlio Pietro, si recò dal vescovo di
Tortolì per chiedergli consiglio; poi non se ne seppe più nulla: anzi, Pietro Lai negò tutto e accusò Vittorio Corgiolu,
cognato di Nicolò Businco, di averlo indotto a dire il falso.
Ma ormai gli inquirenti lavoravano a largo raggio, senza ignorare alcun indizio. Interrogarono anche Salvatore
Mulas di Foghesu che confermò l’avversione di Carronarbu verso Tedde, accusato di percepire pesanti diritti per la
conciliatura e minacciato di morte anche per l’aumento delle tasse comunali. A Perdasdefogu erano in molti a
parlare: Bernardo Spanu confidò a Francesco Lai di Ierzu, di avere visto l’assassino di Tedde e di averlo
riconosciuto in Carronarbu, ma non aveva voluto dichiararlo a Oristano per paura. Secondo altri, Carronarbu aveva
incontrato dopo il delitto Vincenzo Lai Conchedda, e gli aveva intimato di stare zitto.
I magistrati, fatto che destò scalpore, vollero interrogare anche il vescovo, mons. Paderi, che non si tirò indietro e
confermò quanto le aveva riferito Rosa Lai, moglie di Carronarbu, alla presenza del figlio Pietro. Il vescovo, che era
stato semplicemente informato di un fatto e non era legato al segreto confessionale, dichiarò che in punto di morte,
Carronarbu aveva confessato alla moglie di avere ucciso Tedde.
Altra testimonianza falsa era quella di Armerino Cao, il flebotomo licenziato da Giosuè, che diceva di aver sentito
Piroddi e Businco complottare sul treno Lanusei-Tortolì. Il capostazione di Lanusei negò che quel giorno sul treno
fossero saliti i due condannati
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. Fu invece accertato quanto dichiarato dall’avvocato Enrico Piroddi: su quel treno,
poco tempo dopo il processo, Antioco Leoni di Ilbono e Salvatore Uda di Loceri avevano sentito Nieddu vantarsi di
aver fatto condannare Giosuè.
La congiura di Tertenia si arricchiva di un altro inquietante capitolo, che era stato taciuto per lunghi anni proprio
da uno dei familiari più enigmatici di Ruggero Tedde, l’avvocato Emilio Atzeni. A differenza di Stefanina Zara e di
Bebba Tedesco, fermamente convinte rispettivamente dell’innocenza e della colpevolezza dei condannati, Emilio
Atzeni non si era fatto un’idea chiara della personalità dei condannati, forse perché li conosceva poco o forse perché
non riusciva a districarsi in quell’alternarsi di verità e di calunnie. Innocentista, poi colpevolista, dopo la condanna
di Oristano aveva voluto stringere la mano ai condannati chiusi nel cellulare che li riportava in carcere, si pensava
allora per sempre. Ebbene, nel 1908, l’avvocato svelò un fatto gravissimo
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. Dopo il delitto aveva ricevuto una
lettera dal Brasile, regolarmente affrancata, in cui si denunciavano Piroddi e Businco come autori dell’omicidio di
Tedde. Il fatto lo lasciò perplesso fino a che, molto tempo dopo, ricevette una lettera da Tertenia, scritta da
Domenico Ghiani: la grafia era identica e allora cominciò a capire che contro i condannati era in atto una congiura.
Il memoriale di Giosuè Piroddi inviato a Oristano finiva con tre parole: Giustizia! Giustizia! Giustizia! Era un
grido di ribellione, un’invocazione, una dura protesta che dal fondo di una cella di Pianosa raggiunse la magistratura
e un’opinione pubblica ormai convinta della sua innocenza e di quella dei suoi compagni di sventura.
Interpretando questo diffuso stato d’animo, molti consigli comunali ogliastrini approvarono ordini del giorno a
favore della revisione del processo di Oristano, che furono inviati ai magistrati il 5 dicembre 1909. In realtà, tutti
questi atti riproponevano in termini nuovi le mozioni approvate dal consiglio comunale di Ierzu e di Perdasdefogu
nel 1898. In esse si chiedeva la revisione del processo e in subordine, «per le esigenze del codice di procedura
penale non facilmente sormontabili», si invocava la grazia «del nostro augusto Re Umberto». A distanza di tanti
anni, i consigli comunali esprimevano nuovamente la speranza che i vecchi amministratori riacquistassero la libertà.
All’epoca, Arturo, figlio del povero Businco, lavorava a
L’Unione Sarda
e un gruppo di colleghi lo convinsero a
organizzare un Comitato “Pro vittime errore giudiziario” che mobilitasse l’opinione pubblica a favore dei