fecale era internato nel muro mediante buco quadrangolare che veniva tirato fuori dalla parte esterna dall’inserviente
per la pulizia, senza ricorrere all’aprimento della porta della cella; una finestra a vetri con inferriata a forma di bocca
di lupo, la cui luce entrava solamente dall’altro che non lasciava vedere appena in confuso che un piccolo spicchio
di cielo
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. Nulla potevasi vedere all’interno poiché per tutta l’altezza della finestra si ergeva un sottil muricciolo che
faceva le veci di botola.
Il sole compariva solo al suo tramonto strisciando fugacemente un lembo della parete. Ero entrato nella vera
tomba; mi sedetti, mangiai un bocconcino, feci le mie preghiere vespertine e andai a letto rassegnato, lasciando
finestra aperta perché non affogassi dal troppo caldo. La stanchezza di dodici ore di viaggio, fatte con disagio e con
ferri in un treno lumaca, contribuì ad addormentarmi profondamente.
Quando mi svegliai mi trovai col viso e con la fronte gonfie molto a causa delle morsicature d’uno sciame di
zanzare esistenti dentro e fuori. Un continuo ronzio di esse si sentiva nella cella; chiusi la finestra ma il rimedio fu
inutile perché una quantità enorme era dentro a tormentarmi maledettamente.
XI – I
L
REGIME
CARCERARIO
La prigione è luogo privo di ogni comodità
e pieno di ogni molestia.
F.D. G
UERRAZZI
Mia moglie, saputo il mio trasferimento si recò subito colà e, in quella circostanza ebbi con lei tre lunghi colloqui
ordinari; ed in seguito uno ogni quindicina coi miei cognati.
Brutta cosa è l’esser isolato senza poter discorrere con alcuno, in cui l’uomo, si scoraggisce, ne smarrisce
l’intelletto e la favella, diventa ebete, senza l’uso di bibite spiritose, e inerte e floscio come un pezzo di pasta frolla.
La porta non si apriva se non per la pulizia, per il passeggio e per quando venivo chiamato giù per qualche
bisogno. Tutto veniva consegnato dallo sportello ad uso di bestia feroce asserragliata. Ci davano ogni dì circa un’ora
di passeggio all’aperto in appositi cortiletti separati da alti muri e sorvegliati da due agenti: uno passeggiava sopra
lungo i cortiletti, mediante apposita stradicciuola costrutta e l’altro sul suolo, affinché non si discorresse coi vicini.
Tanto all’andata che al ritorno facevano osservare la distanza di dieci passi fra un detenuto e l’altro, senza voltarsi
indietro, proibito di parlare e fare segni di sorta sotto pena di sentirsi piovere addosso una grandinata di sacrati.
Intanto mi ero armato di coraggio, sperando che quanto prima avrei terminato quella vita monacale ed infame,
temperata da altra parte dai colloqui dei miei cari, dalla lettura di vari libri favoritimi dall’amico Cav. Ordioni e dalle
diverse visite che egli mi faceva sotto il titolo di difensore.
In quel silenzio sepolcrale si rimaneva al buio di notte, senza il beneficio di lume da parte dell’amministrazione né
concesso d’averne del proprio. Oltre a ciò neppure il riposo della tomba potevo avere, come tutti gli altri infelici
concaptivi. Tre visite si facevano di giorno, una al mattino, una dopopranzo e una alla sera, ove in quest’ultima
praticavano una perquisizione personale e domiciliare quotidiana, non lasciando nessun oggetto, nessun angolo
senza rovistare, non escluso neppure il povero vaso immondo. Alla notte poi ne praticavano altre quattro: due prima
della mezzanotte e due dopo, aprendo ogni volta la finestra per assicurarsi se l’inferriata era intatta o no,
producendomi quelle aperture improvvise e sconvenevoli continui raffreddori. A tutto questo martirio si aggiungeva
l’uso smodato d’aprire senza ritegno alcuno i catenacci e sbattendo con un fracasso infernale le imposte nell’atto di
chiuderle; fracasso che si sentiva da un capo all’altro del vasto stabilimento. Chi non era abituato a quel genere di
usi molesti ne impazziva di paura. Molte volte mi era occorso sentire qualche vicino e lontano gridare come un
dannato e gli aguzzini se ne facevano le beffe come che godessero dello squilibrio mentale momentaneo di quei
poveretti, avvenuto unicamente per gli usi loro poco garbati.
Ogni tanto poi veniva aperto lo sportello, introducendo il fanaletto per accertarsi della esistenza del detenuto, e
chiudendolo alla stessa guisa delle porta. Coronavano l’opera la mezza dozzina di sentinelle che montavano intorno
al carcere, con le loro lugubri voci “sentinella all’erta! all’erta sto!”, ripetuto ad ogni quarto d’ora: voci che spesso
proferivano con altre parole oscene e sgangherate.
Ogni dì mi divertivo a dare la caccia alle zanzare, affinché alla sera non ne rimanesse alcuna, ma quante ne
uccidevo in giornata, altrettante ne penetravano durante la notte, allorché le guardie spalancavano le imposte della
finestra per verificare la inferriata.
In ottobre ebbi un attacco di freddo e febbre; paventavo di mettermi al medico per non destinarmi in infermeria,
ma finalmente un giorno, non potendone più, mi segnai al medesimo e mi diede una dose di chinino da prenderla